Il riposizionamento di Barilla e la new wave della pasta
Riposizionare una marca è un intervento importante ancorché pericoloso, quando si rischia di alterarne il vecchio e solido brand system. Ma alcune volte è necessario. Per Barilla, arrivano segnali inequivocabili: una flessione in Italia del 7,2% a valore e a volume, con una quota di mercato calata del 2,6% e pari al 26,6%. Se poi pensiamo che nel 2014 la quota di mercato Barilla a valore era superiore al 32% e addirittura maggiore del 40% nel 2011, comprendiamo subito che la mitica pasta ha subito un pesante ridimensionamento nell’ultimo decennio. Come intervenire per mantenere la leadership incontrastata?
Cosa resterà degli anni 80
Chi, come me, è cresciuto negli 80, avrà un intenso ricordo degli iconici spot scanditi dalla «musica di Barilla» (in realtà un brano di Vangelis rivisitato, che ogni bambino riproduceva con il suo flauto a scuola nelle ore di musica) e conclusi magistralmente nel claim «Dove c’è Barilla, c’è casa». Barilla in quegli anni era «la pasta», sinonimo di focolare domestico di affetto familiare. Le sue atmosfere calde e amabili, che si alimentavano in un contesto socioculturale molto diverso, hanno fatto storia e sono patrimonio della marca oltre che della pubblicità italiana.
Quel mondo, però, non c’è più da un pezzo e l’universo di marca edificato su esperienze e caratteristiche simili risulta contradditorio e meno affascinante di un tempo. Non che si possa imputare a Barilla di aver continuato a adottare quello stesso registro stilistico ma la sensazione, almeno di chi scrive, è che abbia affrontato l’evoluzione strategica di marca un po’ timidamente e che non si sia accorta con anticipo del rischio invecchiamento. La sua immagine è stata – slowly but surely – usurata dai cambiamenti della società. A cominciare dalle caratteristiche del prodotto stesso, dalla soddisfazione del consumatore in generale, dal prezzo.
TENDENZE DI CONSUMO
La pasta per tutti
Anche per la pasta secca, bene di primaria necessità per il nostro paese, il prezzo doveva essere per tutti: né troppo alto né troppo basso. E come sappiamo: il prezzo differenzia sensibilmente il posizionamento percepito delle marche coerentemente con la qualità percepita del prodotto, rappresentando spesso un o il fattore di scelta per il consumatore. Al contempo, l’evoluzione nelle scelte di consumo della pasta ha visto, via via, una crescente richiesta di pasta di qualità, scarsamente presidiata da Barilla, che ha consentito l’inserimento nella category e nel consideration set del consumatore italiano, di nuove marche meno orientate a un prezzo che consentisse un posizionamento per tutti. Inoltre per la pasta, solitamente, non c’è una marca abituale perché la pressione promozionale sposta sensibilmente le decisioni d’acquisto, che vengono prese in tempo reale nel punto vendita, scegliendo l’offerta più vantaggiosa all’interno di un ventaglio di proposte – anche novità – in possesso di particolari «requisiti».
La pasta per la famiglia
Il ridimensionamento del numero di componenti per nucleo famigliare, con il fenomeno della destrutturazione dei pasti e delle abitudini alimentari tradizionali, e insieme alla crescita diffusa di comportamenti all’insegna del salutismo, hanno portato a un graduale ma sensibile calo dei volumi consumati per famiglia. In altre parole, a casa si sono ridotte le occasioni d’uso e si mangiano porzioni meno abbondanti: risparmiare un euro al kg è diventato meno importante per il consumatore. E sono entrate in gioco con decisione altre promesse e ulteriori benefici.
Barilla è forse rimasta per troppi anni imbrigliata in una costruzione fantastica, capace sì di creare valore e collocare il prodotto in un contesto di qualità sfruttando quanto era sedimentato nella testa delle persone ma, allo stesso tempo, contenuti dell’identità come la tenuta di cottura (valore di prodotto, ormai prerequisito anche per i primo prezzo) e il calore domestico (valore emotivo) non sono più argomenti attuali se non collocati in un contesto contemporaneo coerente.
La pasta è solo un bene di prima necessità?
La natura di questi benefit si è evoluta nel tempo e le esigenze delle persone sono mutate profondamente, virando verso il salutismo e la ricerca di prodotti di qualità superiore. I prodotti legati all’italianità spopolano, il biologico è cresciuto esponenzialmente ed è sbocciato l’integrale, così come si sono affermati modelli di consumo che prediligono il «senza», la tracciabilità garantita e sono diventate protagoniste anche imprese di dimensioni più contenute.
Non si può dire che il gruppo Barilla sia stato a guardare in questo senso, avendo nel proprio portafoglio la marca premium Voiello (che con il suo grano aureo cresce del 10,8% a valore e del 11,8% a volume) e dal 1999 il brand Wasa (leader mondiale nel mercato dei sostituitivi del pane); oppure, sul fronte della responsabilità d’impresa, con la Fondazione Barilla Center for Food & Nutrition (BCFN) già dal 2009, quando in Italia eravamo agli albori dello sviluppo sostenibile.
La new wave della pasta
Ma allora perché Barilla è retrocessa nelle gerarchie di molti consumatori? Quello che è accaduto nel mercato della pasta può sembrare come controintuitivo in una prospettiva di branding. Apparentemente, la marca con i tratti distintivi più a fuoco ha perso terreno nei confronti di una nuova ondata di player che hanno puntato forte su valori di prodotto; sulla trafilatura al bronzo, sulla macinatura a pietra, sull’acqua di sorgente, sull’essiccatura lenta, sulla qualità garantita del grano. Ma anche su identità visive capaci di richiamare concetti legati all’autenticità e posizionamenti differenzianti, come quelli di Garofalo o di Sgambaro, caratterizzati rispettivamente dalla cultura in senso ampio e dalla filiera corta. Volendo semplificare, Barilla si è indebolita e ha smarrito il point of difference che per molto tempo ha stimolato gli italiani all’acquisto e li ha fidelizzati. E la sua brand vision si è offuscata, non più capace di andare oltre i vantaggi puramente funzionali. Barilla non è stata più coerente con l’immagine che il consumatore aveva di se e con il suo rinnovato stile di vita.
Reagire agli errori rivitalizzando la marca
C’è un episodio che forse è, in egual misura, il punto più basso e lo snodo strategico nella storia recente di Barilla. Ed è quando, nel 2013, il presidente Guido Barilla ha comunicato con leggerezza la sua idea di posizionamento così: «Non farei mai uno spot con una famiglia omosessuale, non per mancanza di rispetto ma perché non la penso come loro […] Se ai gay non piace la nostra pasta ne mangeranno un’altra» (cfr. Nella casa di Barilla il menù è anni 50). Un’opinione espressa ingenuamente ma rappresentativa perché raccontava la personalità della marca: conservatrice, bacchettona, stanca, chiusa, senza energia. Da quel momento Barilla, accusata di omofobia, ha avviato un piano strategico di comunicazione in caso di crisi e ha integrato nel proprio brand system i valori della diversità e dell’inclusione sociale; oggi è un’eccellenza in questo ambito, ma la rivoluzione è iniziata da una cattiva comunicazione che ha creato un danno di brand reputation. Questo cambio di paradigma è riassunto così dal Ceo Claudio Colzani: «Stavamo semplicemente cercando di essere un buon cittadino. Adesso, stiamo cercando di essere un modello».
Cinquanta sfumature di blu
Il nuovo colore, che passa dal blu all’azzurro, rappresenta un refresh ma anche un modo per dire al consumatore: «ehi, ti sei accorto che ci siamo evoluti?». Il cambio è comunque moderato, poiché si rimane all’interno dello stesso specchio cromatico, rinfrescando appunto il caratteristico colore dominante – effettivamente poco attuale all’interno di un mercato dinamico come quello del food – non rischiando di perdere un grande punto di forza: la visibilità a scaffale. «La visibilità di un prodotto è – come la definisce Carlo Oldrini nel prezioso Gli Occhi del Consumatore (2018, Egea) – la sua capacità intrinseca di essere visto dal maggior numero di shopper nel minor tempo possibile all’interno dello scaffale di categoria.»
Al di là dell’iconico cartoncino divenuto azzurro brillante, Barilla ha cambiato rotta sul prodotto, scegliendo di utilizzare solo grano italiano certificato e pubblicando il suo manifesto del grano duro per caricare di significati la rivoluzione. Una scelta praticamente obbligata, dopo la rinuncia al grano canadese per via del glifosato e gli investimenti sui contratti di filiera, oltre al già citato desiderio diffuso di qualità e salutismo.
Con questa operazione, Barilla ha tirato una linea netta tra il prima e il dopo, facendo un salto straordinario verso il futuro e ritornando a essere appetibile. Non ultimo, ha migliorato la sua reputation e scacciato con decisione buona parte delle associazioni negative con il brand che erano motivi per non comprare (alcuni commenti che si possono leggere online: «chissà che grano usano», «è una pasta di bassa qualità», «una multinazionale senza scrupoli», «quel blu mi mette tristezza» o «preferisco aiutare l’agricoltura locale e comprare italiano» come ci conferma anche una ricerca uscita ieri su Corsera Economia).
Sì, (ora) lo voglio
Dopo questi cambi, possiamo affermare che Barilla ha rivitalizzato il proprio brand. Ha introdotto uno scopo più ampio formalizzandolo nel manifesto, ha creato un nuovo legame emotivo con le persone, ha introdotto un tema di autenticità che era smarrito, è diventata più interessante, innovativa e dinamica. È verosimile prevedere che nel prossimo futuro la pasta a marchio Barilla vivrà una nuova giovinezza e rientrerà con prepotenza nelle liste della spesa degli italiani. Non sappiamo come andrà ma è lecito affermare che la pasta Barilla è di nuovo contemporanea, capace di assorbire e diffondere la cultura e valori del tempo in cui viviamo.
Questo caso dovrebbe anche rappresentare un monito per tutte le marche che oggi stanno perdendo smalto o rimangono sedute (sugli allori) mentre i mercati cambiano e si trasformano velocemente: la marca oggi deve fluttuare e muoversi continuamente tra i livelli dimensionali che la compongono, evitando di rimanere impigliata in uno statico modello di posizionamento. Gli indicatori finanziari di breve periodo non sono tutto. Chi gestisce le aziende e le rispettive marche dovrebbe concentrarsi sulla progettazione di identità potenti, sulla definizione di personalità memorabili, sulla costruzione di una relazione-interazione reale con le persone. Solo così sarà possibile diventare rilevanti per i consumatori e prosperare nel tempo vivendo l’attualità culturale.
Nicola Di Francesco – Milano, 29 maggio 2020.