McDonald’s e un riposizionamento epico
Negli ultimi decenni McDonald’s ha subito randellate mediatiche che avrebbero abbattuto qualsiasi marca. Servono delle spalle molto larghe per attutire gli attacchi ricevuti e l’onta di una responsabilità terribile: essere ritenuto il grande colpevole dell’aumento dell’obesità infantile. Dal best seller al vetriolo Fast Food Nation, passando per l’entrata a gamba tesa di Morgan Spurlock con Super Size Me, fino alle velenose riflessioni green di Food, Inc., non solo McDonald’s è uscita indenne ma ha accelerato la sua marcia verso l’impero della ristorazione veloce. numeri del mcbusiness sono da capogiro: 27,56 miliardi di dollari il fatturato del 2012 con un utile di 5,46 miliardi, e un progetto di crescita costante che prevede un investimento di 3,2 miliardi per aprire 1.500 ristoranti e rinnovare quelli esistenti. Un successo per certi versi inspiegabile perché affonda le radici in uno scenario competitivo e culturale lontano anni luce da quello attuale, dove la sensibilità agli aspetti nutrizionali del cibo e alla sostenibilità ambientale erano sconosciuti. Anni nei quali si poteva ridicolizzare il consumatore con un’offerta unhealthy articolata con astuzia facendo leva, nel caso di McDonald’s, su subdoli espedienti come il pagliaccio Ronald o il co-branding con Disney per entrare nelle grazie dei più piccoli. Anni dove i metodi di coltivazione, di allevamento e di approvvigionamento delle materie prime erano una questione meramente tecnica.
Oggi è diverso: Ronald è invecchiato (male), Disney ha fatto un passo indietro, la tracciabilità degli ingredienti è un punto cruciale per l’accreditamento delle marche nel mondo della ristorazione. A Oak Brook, nella sede di McDonald’s Corporation, non sono però sprovveduti e da alcuni anni stanno portando avanti un epico – quanto inevitabile – riposizionamento strategico verso un territorio valoriale più sano e sostenibile. La novità delle prossime settimane, e cioè l’inserimento di un QR Code sul packaging per offrire la possibilità via smartphone di acquisire maggiori informazioni sul cibo appena acquistato, è solo l’ultima delle numerose iniziative inaugurate per modificare la percezione junk food della propria offerta. Un lavoro di ampio respiro che anno dopo anno instilla nel consumatore l’idea di una McDonald’s attenta alla salute, più buona tout court. Nel nostro paese stiamo assistendo proprio in questi giorni alla nuova campagna diretta da Gabriele Salvatores, che con fare filantropico cavalca l’attualità raccontando di una McDonald’s in possesso di valori sociali: un’assunzione di responsabilità in tempi di crisi, che si concretizza nelle intenzioni di investire in Italia e creare nuovi posti di lavoro.
Un altro “prototipo” per dirla à la Kapferer, utilizzato dalla multinazionale statunitense per rinnovare la percezione globale di marca, è stato il lancio del panino d’autore di Gualtiero Marchesi (argh!), evidente quanto forzato tentativo di darsi un tono gastronomico. Mentre, rimanendo in tema di comunicazione, sul sito istituzionale italiano si combatte a carte scoperte la battaglia per la brand reputation: informazioni nutrizionali esaustive, risposte alle Domande delle Mamme, resoconti dei progetti della Fondazione Ronald McDonald e, per chi volesse indagare più a fondo, un ponte al website dedicato Per saperne di più che illustra la filiera, i fornitori e le materie prime. Insomma, se qualcuno venisse catapultato sulla Terra ai giorni nostri penserebbe solo bene di McDonald’s, forse la adorerebbe come suggerisce il payoff I’m lovin’it. I consumatori, però, non vivono su Marte e stanno sviluppando un maggiore senso critico, quindi si mostrano capaci di valutare – a grandi linee – la bontà vera o presunta di una marca, al netto degli estremismi ideologici che nella specifica storia McDonald’s hanno provocato un’antipatia smisurata.
Ma allora, se Big Mac & Co. non sono tra i cibi consigliati in un regime di alimentazione sana (checché se ne dica in Illinois, è un fatto), come mai McDonald’s è un cavallo da corsa? Non sono da soli sufficienti un marketing eccellente o attributi di prodotto come la velocità del servizio per diffondere con profitto un marchio in tutto il mondo. Piuttosto le ragioni sono da ricercare partendo dalla teoria della mcdonaldizzazione della società di George Ritzer (che, a sua volta, si rifaceva alla razionalizzazione weberiana) secondo cui il modello McDonald’s è costruito sui principi – efficienza, prevedibilità, calcolabilità, controllo – che governano l’occidente e di cui industria del fast food ne è l’archetipo. La standardizzazione di processi codificati in stile catena di montaggio, il controllo minuzioso della produzione (mai più del 19% di grassi nell’hamburger, patatine cotte a 168°, pollo a 182°, eccetera), il personale che ripete meccanicamente il proprio copione e un layout del punto vendita spietatamente replicato sono i simboli di quel processo chiamato anche americanizzazione. Ed è questo approccio che rende efficace ed esportabile McDonald’s.
Un format universale pianificato nel dettaglio e costruito per offrire identici sapore ed esperienza da una parte all’altra del pianeta. Da McDonald’s, nel bene e nel male, niente sorprese. I suoi ristoranti sono una porta d’ingresso sul mondo, stimolano il senso di appartenenza a una certa filosofia yankee con la quale condividono da sempre valori come l’internazionalità. Una mentalità global adattabile alle specifiche esigenze culturali che è l’unica via percorribile per le marche moderne, specialmente per quelle che si rivolgono al mercato con l’intenzione di sviluppare l’idea all’estero. Con specifiche esigenze non si intende violare la sacralità locale con versioni imbastardite come McSpaghetti o McFalafel ma inserire nell’offerta varianti con Parmigiano Reggiano, Teriyaki Burger in Giappone o fast-food vegetariani in India. McDonald’s, dopo un momento di spaesamento e rodaggio, sembra aver colto la sostanziale differenza.
D’altra parte c”è poco da scegliere, è una questione di vita o di morte: il trend salutistico è inarrestabile e chi non si allinea è fuori dai giochi. Basti pensare che anche le bibite gasate negli USA hanno registrato un -16% negli ultimi quattordici anni e che anche la mitica Coca-Cola (partner fissa dei McMenu) è in flessione. Riuscirà McDonald’s a completare il suo riposizionamento e a ricostruire una personalità polarizzante? Oppure si normalizzerà come un brand ammortizzatore sociale che permette ai suoi consumatori di “sfondarsi” con pochi dollari? Oggi diciamo che ogni persona ha provato almeno una volta nella vita McDonald’s: sarà così anche tra qualche decennio?
Nicola Di Francesco – Milano, 17 luglio 2014.