Slow Food: buona, pulita, giusta e stupefacente
Quando si pensa a un’associazione no-profit vengono in mente dei progetti locali partiti quasi per gioco. Quando invece si immagina una marca diffusa in tutto il mondo, l’immaginario che si scatena è quello di una multinazionale costruita dal magnate di turno. Slow Food è un po’ entrambe le cose: un’associazione nata nell’intimità delle Langhe piemontesi e divenuto brand internazionale nonché talismano della new wave del consumo contemporaneo. Salvare il mondo praticando il piacere. Questa è la visione di Slow Food, assegnatagli dal suo fondatore e demiurgo Carlo Petrini. Carlin – come lo chiamano da sempre – è solo un giovane, vulcanico compagno quando nel 1986, partendo da Radio Bra Onde Rosse e passando per il rito popolare del Cantè L’Euv, fa decollare Arcigola, costola gastronomica dell’ARCI.
Da quel momento inizia l’ascesa del movimento che solo tre anni più tardi, a Parigi, lancia Slow Food (per diverso tempo si chiamerà Arcigola Slow Food, ndr), una rivoluzionaria organizzazione – di matrice politica – che intendeva contrastare la «fast life» à la McDonald’s e «coloro che confondono la frenesia con l’efficienza». Nel 1990 viene inaugurata Osterie d’Italia, una pubblicazione che intendeva promuovere la piccola ristorazione tipica a prezzi modici; ed è subito boom, con la Germania a trainare la svolta gourmet, che si materializza in tutta la sua forza nel 1996/1998 con le prime edizioni del Salone del Gusto di Torino. Da lì in poi è un’avanzata «eco-gastronomica» inarrestabile: vengono lanciati i Presìdi, Slow Food USA, la Fondazione per la Biodiversità, la prima Università di Scienze Gastronomiche al mondo, Terra Madre. Che sono poi oggi tutti brand vitali, con una propria personalità e capaci di generare valore economico.
Un’evoluzione importante, che nessuno avrebbe previsto quando a Bra negli anni 80 si iniziò a masticare l’argomento in concomitanza dello scandalo del vino al metanolo. Così come, solo un buon profeta avrebbe raccontato di un Carlo Petrini tra «le 50 persone che potrebbero salvare il pianeta» (The Guardian, 2008). A celebrare questa impresa romantica arriva domani nelle sale «Slow Food Story», documentario di Stefano Sardo – figlio di un amico di Petrini – che mette in scena un ritratto che si potrebbe definire agiografico ad eccezione di una breve sequenza dove Carlin viene descritto dallo scrittore e agronomo Antonio Pascale: «Vittima del sapere nostalgico». Questa dichiarazione introduce un tema di riflessione importante. Gli ultimi dati dicono che nel 2030 saremo 8,3 miliardi e nel 2050 le proiezioni parlano di un pianeta Terra con 9 miliardi di persone, da sfamare naturalmente.
Quindi in un futuro neanche tanto prossimo bisognerà, per scongiurare il corto circuito nutrizionale, produrre di più e innovare. Un approccio ai temi della produzione agricola differente da quello compatibile sostenuto da Slow Food e invocato da consumatori sempre più esigenti. Tuttavia questo argomento è rimasto irrisolto perché all’interno del film non viene approfondito né discusso, se non evocato nell’incipit con la voce fuori campo di Petrini a scandire: «Noi siamo quello che mangiamo, si dice. Ma il modo in cui mangiamo sta uccidendo il nostro pianeta. Ma per fortuna, c’è chi resiste». Un’avventura che a ogni modo vale la pena conoscere; la storia di un uomo semplice che con passione e ostinazione (e generosi calici di Nebbiolo) ha costruito una delle marche più stupefacenti di sempre.
Nicola Di Francesco – Milano, 29 maggio 2013.